“The Master” non è un film su Scientology, né vuole esserlo. E\’ un film sulla relazione tra un relitto bellico umano dall\’erezione facile e scomposta, e un guru intercambiabile con altri, che con Ron Hubbard ha in comune l\’idea balzana che la Terra abbia qualche trilione di anni in più di quanto dica la scienza e pratica un\’anti-ipnosi non avendo i mezzi pisco-culturali per confrontarsi con Freud. I due si incontrano nel 1950 ed è importante, perché lo sfondo accurato ha spesso e troppo volentieri il sopravvento su due ottimi attori che qui gigioneggiano monocordi: Joaquin Phoenix (come la città e l\’uccello della Resurrezione) col mento proteso a cercare il perfezionismo di Daniel Day-Lewis; Philip Seymour Hoffman () ad incarnare il bisogno del regista di essere, e contemporaneamente di avere in scena, un Orson Welles. I due suscitano l\’estro dei recensori che vi vedono la dialettica servo/padrone, o belva/domatore, ma sono in realtà uniti dal baratto della sete di intrugli: (spunto interessante, puntualmente sfuggito alle penne a caccia del nuovo Kubrick). “The Master” non è un capolavoro, anche se vuole esserlo. E\’ un film inutile, se un\’opera d\’arte si potesse bollare come tale senza incappare nel complimento ( sentenziò Oscar Wilde che scrisse anche mirabili pagine sulla critica). Un film PUO\’ e DEVE essere inutile, nel senso aulico ma pratico del termine. Non è un cappotto, non è un camino, non è un salvagente, non è un galoppatoio di svago (tutte cose che molti credono). Ma “The Master” è inutile quanto a densità, approfondimento, ritmo, introspezione, capacità di coinvolgere e persino di interessare. E\’ allucinante per tedio e non per trama. Se ne “Il petroliere” ancora affiorava un senso di grottesco d\’Autore, immerso in un polpettone d\’Autore; ora è giunta l\’era in cui possiamo tranquillamente registrare Paul Thomas Anderson come un sopravvalutato – “Magnolia” incluso, “Boogie Nights” escluso – e dedicarci alla ri-visione e alla revisione di “Ubriaco d\’amore”, con Adam Sandler, che rischia di essere il suo film migliore e meno pretenzioso. Anche perché in esso Anderson è un colorito ben ispirato e non ancora il calligrafo odierno, che divaga come un colto scazzatone spacciando per curiosità asettica uno sguardo che si ferma alla superficie dei corpi e degli eventi. dice il vecchio al giovane tra un compiaciuto vuoto di montaggio e la ricerca di un antico amore perduto per anaffettività compulsiva. Ma monello è chi il monello fa. Qui, nella scatola del cinema di Anderson, si sente il botto loffio del bluff d\’alto bordo.
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