Regista affabulatore di demoni e colori, sovraccarico per bisogno artistico, confusionario e maledetto per scelta (mangiapreti a dispetto del cognome), Alex de la Iglesia pesca sempre qualche jolly azzeccato (vedi il personaggio di Carmen Maura in “La comunidad”), ma non tiene mai il passo, né vuole: esagera, sbraca, sfregia, scalcia, impicca, randella, rende – letteralmente – tumefatte le proprie storie. Qui il jolly è il pagliaccio triste (faccioso, non si pensi a Pierrot), figura che incute subito disagio e malinconia. Attraverso gli anni della Spagna franchista – in un parallelo politico cine/datato (de la Iglesia vorrebbe essere Pasolini, vorrebbe essere Buñuel) – il clown perde il padre (per sua balordaggine), si innamora della donna sbagliata, tenta fughe e slanci impossibili, finisce a far coppia tragica col rivale di sempre. Prima dello splendido volo di Carolina Bang (splendido fino a un certo punto), la tromba del regista si fa grancassa di ogni suggestione violenta, sanguinaria, morale, architettonica. C\’è qualcosa di affascinante in tutto questo, ma riuscire a definirlo è un cavolo amaro che ogni spettatore deve risolvere con se stesso.
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