Il cielo nella stanza non entra più e la fine ci è subito nota. I protagonisti ottuagenari sono stati insegnanti di musica. Lei è bombardata dalle ischemie, lui la cura. Il tempo passa ma non può più fuggire, il mondo esterno (compresa la figlia Isabelle Huppert) entra in scena solo per non comprendere le altrui promesse, l\’angoscia è una calma disperazione che sa di pudore, di bisogno di raccontare prima che il fiato sia finito. Mai un medico in scena, mai un attacco, o un ospedale: la malattia penetra da una simbolica serratura scardinata e spinge a gesti prima pietosi e poi estremi, perché la spossatezza data da dedizione e dolore cancella la differenza tra l\’una e l\’altro (emblematiche le opposte liberazioni di un piccione). Michael Haneke passa per un regista sadico, da funny dangerous games, ma è solo lucidissimo. Si piange meno di fronte a questa sua opera straziante che a decine di film retorici che ci hanno spremuto le cornee. Il regista austriaco è chirurgico, secco, implacabile nel narrare la falsa sicurezza delle menti, dei corpi e degli ambienti. Persino qui – soprattutto qui – si dimostra un esemplare violatore di case borghesi: così vulnerabili, improvvisamente memoria inutile: stipiti e quadri come gabbie, vuoti a perdere. Palma d\’Oro a Cannes al racconto quasi teatrale dell\’educazione al dolore nella cognizione della malattia. L\’amore tra vecchi (parola bellissima e naturale) è una complice deriva che si salda in fragili ossa che si sostengono in quelli che sembrano balli senili tra marionette amorose (forse quello che lui le dà quando lei non beve è il primo schiaffo di un\’esistenza insieme). Lo sguardo nobile e laico (si) commuove per la capacità di spessore sospeso di un Cinema sempre esatto e mai funereo. Emmanuelle Riva recita quasi solo con le palpebre, Jean-Louis Trintignant con le pupille. Li si ammira in ginocchio.
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