Tutto come era lecito attendersi (compresa un televisore/simbolo che non funge) in quella discarica di mondo cara allo Sguardo (fotografia da urlo) di Daniele Ciprì, pur amputato dal sodale Maresco di “Cinico Tv” e “Lo zio di Brooklyn”. Non ho mai amato i suoi uomini e suoi cani randagi in un eterno sud post-atomico, ma credo questa volta il branco umano, le architetture/inquadrature (in)popolari e la \’puzza di ruggine negli occhi\’ siano pura arte. Il periodo sono gli anni \’70 ma non vi è un vero Tempo, la lingua è il siciliano ma si parla a sputacchi, ci si muove tra archeologia industriale e primitività domestica (la prima ha perso ogni anelito agli oggetti, la seconda vive di quello), la colonna sonora mescola tegami d\’autore alla Callas e a Nino D\’Angelo. Ci sono una bambina morta ammazzata, uno strozzino bifronte – che non ha l\’anima ritorta di quello di Sorrentino, ma solo un lustro ghigno capitalista – e una nonna che sembra di carta da zucchero finché si scopre saggia megera di carta vetrata (Aurora Quattrocchi). La mafia è un\’atmosfera presente e inutile da spiegare, come il tono grottesco che va bene per la spiaggia e l\’Apocalisse e la cinefilia dell\’autore che spunta come lava riconoscibile da un vulcano che fa da monocorde serbatoio illustre che (e)rutta miseria in scena e nobiltà nel cast: Toni Servillo, inzaccherato a dovere; la moglie acciuga Giselda Volodi, il figlio tonto Fabrizio Falco, premiato a Venezia. Iperrealtà capolavoro: l\’indigesto che oggi diviene comprensibile – e persino necessario – al gusto di chi gli ha sempre preferito una diversa percezione del mondo.
No Comments