Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito
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VENUTO AL MONDO

Non (da me) recensibile perché r i t e n g o il lavoro di Sergio Castellitto come regista degno di rispetto: ha mestiere, sbaglia toni ma ha gola. Mentre i best seller della sua signora (e a cui lui si applica sciaguratamente come sceneggiatore) s o n o oggettivamente intollerabili: una overdose di scene madri e figli agognati, guerra e pace (dei sensi e delle macerie), sentimentalismi nei simboli e nei dialoghi, appelli al destino costretto melodrammaticamente a presentarsi a obliterare ad ogni capitolo del libro di Margaret Mazzantini. Stupri in scena e allo spettatore, Sarajevo bellica e bella fotografia, capriccio melò elefantiaco, molto rumore che si crede letteratura, riferimenti cinematografici stonati. Pénelope Cruz a livello Magnani, come in “Non ti muovere”, Emile Hirsch faccia giusta. Tutto il resto non è noia ma fatica.

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RED LIGHTS

Pensavo peggio, invece funziona la lotta ai finti fenomeni extrasensoriali della prof Sigourney Weaver, agnostica per intelletto e per dolore, capace di riconoscere puntualmente gli indizi (le red lights del titolo) di ectoplasmi truffaldini in splendida cornice color Ontario. Funziona un po\’ meno (ma funziona e funzionerebbe meglio se il finale fosse più palese e luciferino) quella tra il suo assistente, il fisico Cillian Murphy e il magnetico e strapagato cialtrone piegametalli Robert De Niro: cieco per esigenze di copione e – metaforicamente – tronfio oblio dell\’attore che è stato. Non occorre un medium per capire perché lei a un certo punto debba sparire dalla scena, ma meglio non spoilerare oltre il livido thriller nero che il bravo regista di “Buried” (tutto girato in una tomba in Medio Oriente) imbastisce con qualche caduta di stile e molta sana volontà d\’intrattenimento da ghostbuster d\’alto bordo (con un pizzico di “Unbreakable” e “The Prestige”).

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VIVA L\’ITALIA

Causa ictus scopereccio, il politico corrotto/corruttore Michele Placido (in ottima forma, alla Gassman senior) inizia a dire la verità, tutta la verità, nient\’altro che la verità sulle mille sporcizie italiane di cui è stato maestro e artefice, a cominciare dalla propria famiglia: malasanità, nepotismo, mazzette sui terremoti, eccetera, eccetera, eccetera. Non essendo Jim Carrey – memorabile in un ruolo simile – le gag rimangono a livello Bagaglino e le interpretazione (Gassman jr. Bova. Ambra, persino il buon Papaleo) non si elevano dal livello del cinema che vuol far facile cassetta. Poi la svolta pentitista cerca toni lirici (a L\’Aquila), riflessivi (passeggiate su sfondo di sommossa), utopistici (il finalone cambia-Costituzione). E\’ un film che scorre e facie da condividere. Il bersaglio sporco è talmente grosso che è impossibile mancarlo. Dunque ci si casca, proprio come il protagonista rimprovera ai suoi elettori. Perché a nessuno in “Viva l\’Italia” passa neppure per la mente di potersi redimere senza farsi – e dunque fare – la morale. Il film di Massimiliano Bruno non si accorge di dipanarsi con la faciloneria da cui vorrebbe svoltare. Né di ricorrere con forza alla retorica che pretenderebbe di combattere. Dico questo perché un discreto filmastro rimanga quello che è, e a nessuno venga in mente di assecondarlo quando si erge a modello di \’commedia critica all\’italiana\’. Si parli di più dei suoi bolliti stereotipi e sia vietato fare il nome di Risi e Monicelli.

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BALLATA DELL\’ODIO E DELL\’AMORE

Regista affabulatore di demoni e colori, sovraccarico per bisogno artistico, confusionario e maledetto per scelta (mangiapreti a dispetto del cognome), Alex de la Iglesia pesca sempre qualche jolly azzeccato (vedi il personaggio di Carmen Maura in “La comunidad”), ma non tiene mai il passo, né vuole: esagera, sbraca, sfregia, scalcia, impicca, randella, rende – letteralmente – tumefatte le proprie storie. Qui il jolly è il pagliaccio triste (faccioso, non si pensi a Pierrot), figura che incute subito disagio e malinconia. Attraverso gli anni della Spagna franchista – in un parallelo politico cine/datato (de la Iglesia vorrebbe essere Pasolini, vorrebbe essere Buñuel) – il clown perde il padre (per sua balordaggine), si innamora della donna sbagliata, tenta fughe e slanci impossibili, finisce a far coppia tragica col rivale di sempre. Prima dello splendido volo di Carolina Bang (splendido fino a un certo punto), la tromba del regista si fa grancassa di ogni suggestione violenta, sanguinaria, morale, architettonica. C\’è qualcosa di affascinante in tutto questo, ma riuscire a definirlo è un cavolo amaro che ogni spettatore deve risolvere con se stesso.

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OLTRE LE COLLINE

Ancora due donne protagoniste (e il corpo violentato di una di loro) per il bravo regista rumeno di “4 mesi 3 settimane 2 giorni”. Attrici d\’eccezione, premiate a Cannes al pari della sceneggiatura. Sono cementate da un\’amicizia nata in orfanotrofio, poi una ha scelto la vita monastica in un piccolo convento \’a gestione famigliare\’ che cela Freud in ogni ombra innevata: i sacerdoti si fanno chiamare Papà e Mamma, il Diverso non può essere che Maligno, la buona fede nel proprio mal operare (quasi da lager) è cieca ed assoluta. Tanto che il film di Cristian Mungiu sfiora solo la critica all\’istituzione religiosa e crocefigge quella al fanatismo umano. Insieme alla sgraziata e disidratata Alina che è andata in visita dall\’amica e vorrebbe portarla con sé altrove. Torna alla mente il toccante episodio breve di Iñárritu nel film collettivo “11 settembre 2001”: minuti di schermo nero, voci concitate, drammatici messaggi lasciati dalle vittime consapevoli sulle segreterie dei loro cari, squarci di corpi in caduta dalle Torri Gemelle. Poi esplodono il bianco e una domanda: la luce di dio ci guida o ci acceca? Qui la storia all\’origine è vera: pie donne che divennero torturatrici in un monastero che la Chiesa Ortodossa fece radere al suolo. Loro ci mettono una pietra sopra, il cinema la toglie svolgendo appieno il suo compito.

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SKYFALL

Senza farla troppo lunga, un \’onesto\’ James Bond che muore e resuscita, sbuffa e balza, birra e champagne, ma con un tasso di invulnerabilità simpaticamente più basso del solito e dotato (ovvero umanizzato) con la fragilità più accentuata di sempre. Avventure popolari di buon livello, sebbene non il miglior 007 recente, che resta “Casino Royale” e il perché è presto detto. Qui il regista inglese Sam Mendes di “American Beauty” porta in dote un nobile tocco sofisticato che fluidifica e abbellisce l\’insieme (pur gravato dai soliti 20 minuti di troppo, anzi mezz\’ora essendo tra tutti i Bond il più extralarge) e tenendo il (non più) supereroe ben stretto alla pioggia di Londra e delle Highlands, zavorrandolo con gusto vintage ai suoi feticistici accessori da marketing al tramonto. Ma accetta comunque di allungare il brodo di una saga spionistica morta e sepolta senza rifrullarne le ceneri con stile tarantinato, quello che sfida la morte di un genere perché sa che un genere è morto. Funziona Javier Bardem col capello pagliericcio (voluto da lui, ma già usato dai kattivi bondiani). Funziona la Bond Girl Bérénice Marlohe – saettante modella francese con nome da cometa. Funzionano il burocrate zelante Ralph Fiennes e le materne Judi Dench e Aston Martin di “Goldfinger”. Strafunzionano i titoli di testa. Quelli di coda non arriveranno mai, a dispetto di un immaginario in riserva da decenni.

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LE BELVE

La belva Salma Hayek, attrice natural born in Messico, felice di fare la faccia feroce in patria con caschetto da Cleopatra posticcia ma efficace, è Madrina Elena, a capo di uno spietato cartello di spacciatori in emorragia di uomini e know how. Ha come braccio destro (e ben armato) un sadico Benicio Del Toro, nativo di Porto Rico, ma fattezze e modi da killer centroamericano per eccellenza. Vanno all\’assalto di tre bravi ragazzi, coltivatori di marijuana in California, rapendo la ragazza (di entrambi! Il che fa ritenere ai monogami latinos che le belve siano loro): la rivelazione Blake Lively che viene dalle frivolezze di “Gossip Girl”, ma qui sa dare fondo al suo lato estremo. C\’è un iperbole di Truffaut nel triangolo isoscele che unisce la bionda in cattività al rude reduce dall\’Iraq che la possiede portandola violentemente al \’guerrasmo\’ (Guccini direbbe dice il saggio Filippo Mazzarella che invece sa bene che oggi girano bene quasi tutti (tranne Lynch e Argento, vabbe\’) e i plusvalori sono altri. Ma il regista sopravvaluta il testo all\’origine firmato da Don Winslow (un cognome che sfiora la traduzione: le legge vince) e infila due ore di banalità annunciate in cui la scena precedente lascia sempre immaginare le successive (finalaccio compreso). L\’adrenalina non sa farsi estetica, Tarantino è un miraggio (peraltro neppure inseguito) e il B-movie è a un centimetro, causa mira quasi sempre sbagliata. Cine-cannabis soporifera, medicamentale, illegale suo malgrado.

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AMOUR

Il cielo nella stanza non entra più e la fine ci è subito nota. I protagonisti ottuagenari sono stati insegnanti di musica. Lei è bombardata dalle ischemie, lui la cura. Il tempo passa ma non può più fuggire, il mondo esterno (compresa la figlia Isabelle Huppert) entra in scena solo per non comprendere le altrui promesse, l\’angoscia è una calma disperazione che sa di pudore, di bisogno di raccontare prima che il fiato sia finito. Mai un medico in scena, mai un attacco, o un ospedale: la malattia penetra da una simbolica serratura scardinata e spinge a gesti prima pietosi e poi estremi, perché la spossatezza data da dedizione e dolore cancella la differenza tra l\’una e l\’altro (emblematiche le opposte liberazioni di un piccione). Michael Haneke passa per un regista sadico, da funny dangerous games, ma è solo lucidissimo. Si piange meno di fronte a questa sua opera straziante che a decine di film retorici che ci hanno spremuto le cornee. Il regista austriaco è chirurgico, secco, implacabile nel narrare la falsa sicurezza delle menti, dei corpi e degli ambienti. Persino qui – soprattutto qui – si dimostra un esemplare violatore di case borghesi: così vulnerabili, improvvisamente memoria inutile: stipiti e quadri come gabbie, vuoti a perdere. Palma d\’Oro a Cannes al racconto quasi teatrale dell\’educazione al dolore nella cognizione della malattia. L\’amore tra vecchi (parola bellissima e naturale) è una complice deriva che si salda in fragili ossa che si sostengono in quelli che sembrano balli senili tra marionette amorose (forse quello che lui le dà quando lei non beve è il primo schiaffo di un\’esistenza insieme). Lo sguardo nobile e laico (si) commuove per la capacità di spessore sospeso di un Cinema sempre esatto e mai funereo. Emmanuelle Riva recita quasi solo con le palpebre, Jean-Louis Trintignant con le pupille. Li si ammira in ginocchio.

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IL MATRIMONIO CHE VORREI

Cinquanta sfumature nel nulla. L\’amore fisico, passata la mezza età, è un timido tentativo di ingresso (respinto), con camicia da notte tentatrice, nella camera del marito da cui dorme separata dopo 31 anni di matrimonio e a cui prepara noiose colazioni in quella cucina che fu teatro di antiche effusioni focose. Poiché lei è la sempre eccelsa Meryl Streep, la seguiamo facendo quasi il tifo nel Maine, da un affermato terapeuta per coppie (Steve Carell, insolitamente serio). Il coniuge Tommy Lee Jones si dedica alla terapia della confessione e agli esercizi di riavvicinamento con la rassegnazione di chi, voglioso di dolciumi, addenta pane e salame. La 50enne ostinata in film così la spunta sempre ed è un peccato: il regista de \”Il diavolo veste Prada\” perde ogni realismo cattivello.

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TUTTI I SANTI GIORNI

Non (da me) recensibile perché nella vaselina di Paolo Virzì sono stufo di rimanere impiastricciato: un unguento di simpatia leggermente cogliona (ricordate la morale/autogol di “Ovosodo”? ) con cui il regista livornese alliscia i suoi tanto adorati personaggi, incapaci di vivere una realtà fasulla da qualche parte che non sia un suo film cinematograficamente fasullo. Non che le trame siano pessime, o la regia scarsa, o il cast sprecato. Va tutto bene, anzi benino. Va tutto avanti a copi di carezzevoli eventi e riprese che lasciano il tempo che non trovano (che perdono, direbbe con più cattiveria Carmelo Bene). Qui il bravo (potrebbe non esserlo?) portiere di notte Luca Marinelli incrocia puntualmente di buon ora la sua sbandata compagna e copula. Il figlio non arriva e la storia prenderebbe una brutta piega (bruttina va là) se non soccombesse a stereotipi di accattivante odiosità virziniana. Limiti di sceneggiatura a strapiombo tra canti sotto la doccia e fecondazione assistita identici in un pathos che crede di solleticare la malinconia e di evocare il grottesco. Ad Acilia, fuor di Toscana, la vita è ancora (la prima cosa) belle, i prati sono in fiore, i protagonisti insopportabilmente umani nel senso marziano che Virzì si ostina a dare al termine.

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