Real Stories
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Ogni stroncatura non è che un atto di amore tradito

Una buona notizia che è il \’nostro\’ amabile sito è ora visibile (seppure dovendo muovere abilmente le ditina) anche da i-Phone e diavolerie analoghe, come da Voi tanto richiesto.

Una simpatica notizia è che il sottoscritto ormai al cinema ci va poco, in ritardo (e quasi sempre con la pistola puntata alla tempia); quindi da oggi spalanca le finestrelle delle recensioni agli spettatori che invece timbrano il famigerato cartellino a pellicole che io salto con l\’asta (il merito non c\’entra, c\’entra il mio bisogno di rivedere a vita gli Scary Movies, il tenente Colombo e il teatro dell\’assurdo). Chiaro che pubblicherò quelle più affini al mio pensiero (almeno mezz\’ora ma la ciuccio sempre, vi lascio indovinare come). Ognuno avrà il suo nome in bella vista e in ogni caso c\’è sempre spazio per tutti nei commenti subito susseguenti.

La cattiva notizia è che è da quando esiste questo sito (7anni7) – luogo che ora improvvisamente non è più amabilmente \’nostro\’, ma solo lo stracazzo di casa mia dove tutti siete ben accetti a patto di non criticarmi lampadari&tappeti – che mi sono giustappunto frantumato le palle con i rimproveri di scarsa ergonomia (ahaha, ma vaffanculo, come se i labirinti non fossero concepiti apposta come tali), fruibilità, tinteggiatura, difficoltà… fino ad arrivare all\’offerta di rifarmela ex novo ed in toto – la mia magione!! – come se mi fosse comparsa sullo schermo per uno scherzo del Mago Otelma. Chi si affatica nei corridoi, finisca come in “Shining”; chi trova gravosi i caratteri vi si avveleni come ne “Il nome della rosa”; chi si scontra con l\’ardua ultima cena (e derivati) si levi muto dalle palle senza che il gallo (ovvero egli stesso) canti e senza crocifiggere me che nell\’ostico barocco ci sguazzo come un batrace. Se si gracida insieme ben venga, se si dibatte/discute di contenuti anche, ma sia chiaro che boschetti e ninfee sono mie e me le gestisco io.

Una riverenza

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Una buona notizia che è il \’nostro\’ amabile sito è ora visibile (seppure dovendo muovere abilmente le ditina) anche da i-Phone e diavolerie analoghe, come da Voi tanto richiesto.

Una simpatica notizia è che il sottoscritto ormai al cinema ci va poco, in ritardo (e quasi sempre con la pistola puntata alla tempia); quindi da oggi spalanca le finestrelle delle recensioni agli spettatori che invece timbrano il famigerato cartellino a pellicole che io salto con l\’asta (il merito non c\’entra, c\’entra il mio bisogno di rivedere a vita gli Scary Movies, il tenente Colombo e il teatro dell\’assurdo). Chiaro che pubblicherò quelle più affini al mio pensiero (almeno mezz\’ora ma la ciuccio sempre, vi lascio indovinare come). Ognuno avrà il suo nome in bella vista e in ogni caso c\’è sempre spazio per tutti nei commenti subito susseguenti.

La cattiva notizia è che è da quando esiste questo sito (7anni7) – luogo che ora improvvisamente non è più amabilmente \’nostro\’, ma solo lo stracazzo di casa mia dove tutti siete ben accetti a patto di non criticarmi lampadari&tappeti – che mi sono giustappunto frantumato le palle con i rimproveri di scarsa ergonomia (ahaha, ma vaffanculo, come se i labirinti non fossero concepiti apposta come tali), fruibilità, tinteggiatura, difficoltà… fino ad arrivare all\’offerta di rifarmela ex novo ed in toto – la mia magione!! – come se mi fosse comparsa sullo schermo per uno scherzo del Mago Otelma. Chi si affatica nei corridoi, finisca come in “Shining”; chi trova gravosi i caratteri vi si avveleni come ne “Il nome della rosa”; chi si scontra con l\’ardua ultima cena (e derivati) si levi muto dalle palle senza che il gallo (ovvero egli stesso) canti e senza crocifiggere me che nell\’ostico barocco ci sguazzo come un batrace. Se si gracida insieme ben venga, se si dibatte/discute di contenuti anche, ma sia chiaro che boschetti e ninfee sono mie e me le gestisco io.

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LINCOLN

Ho iniziato a guardare “Lincoln” come non si deve, pensando ad altro, dedicandogli la coda dell\’occhio con cui si bada che dei bimbi diligenti non facciano danni in salotto sapendo bene che non ne faranno. Questo perché non amo i biopic (dicasi: biografie), meno che mai se iniziate tra il fango dei cannoni e (a lungo) proseguite tra quello della politica. Ma come ho potuto pensare che Sua Maestà Steven Spielberg girasse solo una – seppur monumentale – biografia? O meglio, la biografia di un uomo solo al comando senza descrivere magistralmente nel frattempo al comando di cosa e perché (famiglia, politica, etica, interessi, nazione, popolo, democrazia). “Lincoln” non sbaglia un tempo, un gioco di potere, un retropassaggio, una faccia. Inutile dire di Daniel Day-Lewis, attore maniacale che gira un film al lustro: questo l\’ha rifiutato a lungo e poi vi si è immerso al punto da farsi chiamare Mr. President sul set persino dal regista più famoso del mondo. Ma ecco l\’apprensione di Sally Field, l\’oratoria farabutta di Tommy Lee Jones, le canagliate di James Spader, la fisicità belligerante di Joseph Gordon Lewitt e David Strathairn. Giunto al bivio tra Storia e Leggenda, Spielberg si fa umile e tira dritto come una diligenza che ha imboccato la pista giusta anche se non sa quale sia (quella di mezzo?). Retorica? Poca. Schiavitù stesa al sole? Meglio Tarantino, certo. Ma il 16esimo presidente degli Stati Uniti, qui ritratto nei pochi mesi cruciali in cui la Guerra Civile si combatté soprattutto a parole, ne esce come un monumento di determinazione e tormenti che arricchisce la Storia del Cinema, prima che la didattica. Spielberg cerca in lui un\’umanità notturna (ai limiti del buio) che faccia da contrasto al chiarore degli ideali. Sono vezzi d\’Autore. Il resto è un\’opera possente scritta con mano avvolgente dall\’autore di “Angels in America”. Darà fiato alle trombe patriottiche e agli Oscar al di là dell\’oceano dove ri-giura Obama, ma è il Vecchio Continente il suo palcoscenico naturale. La landa frammentata alla quale fu detto che sarebbe stata beata se non avesse avuto bisogno di eroi. E non era vero.

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CERCASI AMORE PER LA FINE DEL MONDO

I Maya possono sbagliare, ma il cinema catastrofista no. Per lui la fine del mondo è essenziale, linfa vitale – anzi mortale – per trame che si presumono avvincenti a dispetto del finale scontato (anche al cinema la Terra se la cava quasi sempre). Fa eccezione la tenerezza di questa tragicommedia apocalittica in cui un protagonista quasi comico (Steve Carell, finalmente ben dosato) viene abbandonato dalla moglie mentre un meteorite (Mathilda) sta per abbattersi sul pianeta e decide, come ultimo atto, di mettersi in viaggio alla ricerca della sua prima fidanzata. Lo accompagna una stralunata vicina di casa (Keira Knightley) mentre colf e manager non si rassegnano al termine delle loro mansioni, rare scene di violenza urbana ricordano il presente non sospeso, uomini festaioli approfittano della improvvisa disponibilità femminile e un amore coi minuti contati fa breccia nello spaventato sorriso dello spettatore. Che rischio siderale per l\’esordiente Lorene Scafaria di “Nick & Nora”: aggirarsi in zona “Melancholia” con vista su Wim Wenders. Lei dribbla tutto con la grazia di chi ti chiede di non chiedere troppo. E fa centro, senza nemmeno bisogno di troppa indulgenza.

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E SE VIVESSIMO TUTTI INSIEME?

. La chiave del film, abile e sereno, diretto con grazia da Stéphane Rebelin, è nella frase pronunciata dal personaggio (femminista, è chiaro) interpretato da Jane Fonda che deicide di ritirarsi col compagno, un amico dalla salute malandata a dispetto della passionalità ancora focosa, un\’altra coppia (antagonista rassegnata) e di uno studente tedesco di rinforzo, in una comunità dove vecchi amici di sempre possono ricordare il passato, rivelare eterno affetto, nascondersi qualche brutto segreto e sfuggire ai parenti che avevano già scelto ospizi e canili per liberarsi di loro e dei loro quadrupedi. Grigliate, una piscina per ammaliare i nipoti, dialoghi ricchi di verve, ombre di edera e malinconia. E le splendide rughe di Geraldine Chaplin. Cinema francesissimo che ti risucchia in una terza età che è binario collettivo. Impossibile non volergli (tanto) bene.

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CI VEDIAMO A CASA

Tre quartieri romani per tre coppie in costruzione: il Prenestino per Edoardo e Vilma (Ambra Angiolini, mai così brava), conviventi per caso e con scarso futuro. A Monteverde vecchio, Gaia e Stefano devono condividere la casa con un terzo incomodo che suscita gelosie. Ad Ostia nasce il rapporto – contrastato dalla \’suocera\’ Giuliana De Sio che mal sopporta le divise – tra il corista Enzo e il poliziotto Andrea: Nicolas Vaporidis in versione gay surclassa Primo Reggiani tutto labbra. Maurizio Ponzi che viene da Pasolini (e da Francesco Nuti, e da Volevo i pantaloni), sceglie e raffigura storie credibili, caratteri semplici che reagiscono alla complessità degli eventi. Facce applicate agli ambienti: nel loft di Gaia (Myriam Catania) domina un bianco assoluto che invoca compagnia. Incrocio finale in chiesa, dopo percorsi a zig zag tra humour e isteria. Cinema italiano che non fa rimpiangere il tempo dedicatogli. Anzi, gli vuoi quasi bene.

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DJANGO UNCHAINED

Dimentichiamo per un attimo Genius Quentin, l\’uomo che ha capito che l\’unico modo per impedire la palese morte del cinema era dichiararlo morto senza farla lunga sulla sepoltura critica e imporgli una resurrezione fatta di rifrullamenti, citazioni, exploit sopra le righe di un pentagramma liso. Non respirazione bocca a bocca, non sangue dalla rapa: Vecchio Cinema in Paradiso, Nuovo Cinema all\’inferno degli zombie d\’arte esaurita: ritmato dall\’accumulo (che in lui è sete) e dal forsennato galoppo che sguinzaglia ancora il secolare cine-cavallo pelle e ossa eppure accanito. Dimentichiamo il botto (“Le iene”), il fiore all\’occhiello (“Pulp Fiction”), il possibile capolavoro (“Una vita al massimo”), il capolavoro (“Jackie Brown”). E veniamo al cinema della vendetta che ha “Kill Bill” come punta di diamante, a ruota un paio di sguaiati (ma divertentissimi) splatter e culmina in “Bastardi senza gloria” e “Django Unchained” (La D è muta come ben sa Franco Nero, Django originale, ammiccante al bancone). Sono film speculari, anzi identici. Tarantino si siede in coppa al mappamondo e si sceglie il ruolo dell\’illuminato liberal yankee quando tali sono gli americani nemici di Hitler e quello dell\’illuminato liberal europeo quando tali sono i tedeschi inorriditi dalla schiavitù. Come impedisce che tutto ciò faccia di lui un maestrino delle parti giuste? Con l\’ironia della dialettica del dentista/pistolero Christoph Waltz (ri-Oscar subito!) e andando ripescare un Corbucci doc del 1966 a cui toglie dalla fondina la musica iniziale di Bacalov e gli zoom/primi piani (comunque alla Leone) per deragliare subito dalla storia in favore di una Storia che ha Sigfrido e il drago come simbolo e la grinta negra (si diceva così, caro Spike Lee e lo sai bene) di Jamie Foxx come sfogo. Gran carneficina tra assolati tempi morti, combattimenti da Mandingo, frustate alla schiena di una trama sforbiciabile e i capricci francesi del ricco razzista DiCaprio la cui ugola chioccia (in originale) lo priverà sempre dell\’ambita statuetta. Ma – fateci caso – i colpi dell\’alemanno sono letali forellini in pancia al nemico, mentre quelli dello schiavo liberato (e rivestito a mo\’ di valletto guitto) aprono squarci di titanica/villica ribellione. La scena dei cappucci del Ku Klux Klan sembra tratta dalla comicità di Mel Brooks, Elisa sembra cantare con voce d\’epoca, Samuel L.Jackson è un memorabile kapò che è delitto grave non aver premiato. E\’ il Genius Quentin che ci fa sbavare? Certo che no. E\’ un buon film doc che forse lo incanala per sempre su un vitale binario a sua volta morto, o forse è una parentesi rabbiosa tra le tante parole dei suoi formidabili dialoghi. C\’è il marchio di fabbrica, non più la fabbrica. Ma strappa ampiamente la sufficienza: occhi sgranati a dispetto della cavalcata extralarge. E quando arriva lui, nella consueta piccola parte, sfata l\’assioma che la cosa più bella al cinema sia veder morire un nazista. Macché, godevi Tarantino come esplode. Pulp-post-spaghetti western, e se sei vivo spara ancora.

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UNA FAMIGLIA PERFETTA

Af(fresco?) della famiglia italiana dei tempi moderni con la nostalgia di quella dei tempi andati (ma è davvero mai esistita?). Genovese mette insieme una compagnia di attori, che recita la parte della compagnia di attori, ben assortita (a proposito di Natale, Ferrero docet) per i vizi antidepressivi del capofamiglia Uomo delle stelle Castellitto che, tra una risata, un panettone e un brindisi, ti obbliga a Non ti muovere (dalla poltrona) con quelle esplosioni di rabbia che farebbero riflettere pure i soliti idioti dell\’altra sala. Surreale ma attualissimo ritratto di una società arrivata al capolinea, che si attacca ai simboli (Natale e affini) per conservare un minimo di normalità. Simboli, come i regali dati a Leone – di nome e di fatto – Castellitto post-sbroccata in chiesa. Tutti recitano e soffrono tra showdown amorosi e manie di protagonismo attoriali alla tavola imbandita della vita (più o meno) vera. Loro recitano. Almeno loro lo sanno.

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THE MASTER

“The Master” non è un film su Scientology, né vuole esserlo. E\’ un film sulla relazione tra un relitto bellico umano dall\’erezione facile e scomposta, e un guru intercambiabile con altri, che con Ron Hubbard ha in comune l\’idea balzana che la Terra abbia qualche trilione di anni in più di quanto dica la scienza e pratica un\’anti-ipnosi non avendo i mezzi pisco-culturali per confrontarsi con Freud. I due si incontrano nel 1950 ed è importante, perché lo sfondo accurato ha spesso e troppo volentieri il sopravvento su due ottimi attori che qui gigioneggiano monocordi: Joaquin Phoenix (come la città e l\’uccello della Resurrezione) col mento proteso a cercare il perfezionismo di Daniel Day-Lewis; Philip Seymour Hoffman () ad incarnare il bisogno del regista di essere, e contemporaneamente di avere in scena, un Orson Welles. I due suscitano l\’estro dei recensori che vi vedono la dialettica servo/padrone, o belva/domatore, ma sono in realtà uniti dal baratto della sete di intrugli: (spunto interessante, puntualmente sfuggito alle penne a caccia del nuovo Kubrick). “The Master” non è un capolavoro, anche se vuole esserlo. E\’ un film inutile, se un\’opera d\’arte si potesse bollare come tale senza incappare nel complimento ( sentenziò Oscar Wilde che scrisse anche mirabili pagine sulla critica). Un film PUO\’ e DEVE essere inutile, nel senso aulico ma pratico del termine. Non è un cappotto, non è un camino, non è un salvagente, non è un galoppatoio di svago (tutte cose che molti credono). Ma “The Master” è inutile quanto a densità, approfondimento, ritmo, introspezione, capacità di coinvolgere e persino di interessare. E\’ allucinante per tedio e non per trama. Se ne “Il petroliere” ancora affiorava un senso di grottesco d\’Autore, immerso in un polpettone d\’Autore; ora è giunta l\’era in cui possiamo tranquillamente registrare Paul Thomas Anderson come un sopravvalutato – “Magnolia” incluso, “Boogie Nights” escluso – e dedicarci alla ri-visione e alla revisione di “Ubriaco d\’amore”, con Adam Sandler, che rischia di essere il suo film migliore e meno pretenzioso. Anche perché in esso Anderson è un colorito ben ispirato e non ancora il calligrafo odierno, che divaga come un colto scazzatone spacciando per curiosità asettica uno sguardo che si ferma alla superficie dei corpi e degli eventi. dice il vecchio al giovane tra un compiaciuto vuoto di montaggio e la ricerca di un antico amore perduto per anaffettività compulsiva. Ma monello è chi il monello fa. Qui, nella scatola del cinema di Anderson, si sente il botto loffio del bluff d\’alto bordo.

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LA MIGLIORE OFFERTA

La pretesa estetica (senza estasi) di una \’bella\’ opera immersa tra le opere d\’arte si trasforma in un\’opera patacca, e complimenti a Peppuccio Tornatore se il cine-anno comincia (molto) male. Movimenti di macchina e tele d\’autore tra traslochi, truffe e toni noir improbabili. Inevitabile, come battitore d\’asta colto ma truffaldino (il complice è Donald Sutherland con chioma da Gandalf), la scelta di un attoregufotriste quale Geoffrey Rush, incapace di spalancarsi alla rabbia senza stonare e dissennato premio Oscar nel film più tarocco della fine del secolo scorso: l\’australiano “Shine” che simulava il ritorno alla musica del pianista David Helfgott dopo un tunnel di nevrosi, guarigione tutta cinematografica e impietosamente inchiodata al suo ruolo da finto happy end dall\’imbarazzante esibizione dello stesso Hefgott alla notte delle statuette. Il cinema è sempre un falsario. Ma perché crea finta verità negli occhi di chi guarda, non perché si barcamena sullo schermo tra l\’incredibile e l\’improbabile. Sorvolerò sugli snodi di una trama che andrebbe crocifissa e spoilerata per giusto castigo, basti sapere che il protagonista igienista/antieffettivo sempre-in-guanti () cade innamorato della bella agorafobica (sigh) Sylvia Hoeks che fa i capricci su sentimenti e arredi da dietro una porta chiusa. Intanto – per i duri di marchingegno – un automa prende forma nella bottega dell\’aggiustatutto Jim Sturgess e ogni metafora viene ripetuta tre volte affinché paralleli e meridiane facciano luce anche all\’occhio del più tonto. Solo, nella sua alcova di ritratti di signora che lo fissano dalle pareti, il protagonista è al centro di un cosmo che – è la speranza – alluda alla freddezza dell\’estetica senza linfa vitale, ma più probabilmente si tratta solo di montaggio compiaciuto che suona falso come un Canaletto del 2000. Idem per il finale d\’amore \’ostinato\’ già visto decine di volte e sempre meglio (uno per tutti: ne “Il marito della parrucchiera”). Il film di Tornatore – tutto cornice, niente sostanza; piccolo museo privato in cui tutto è a posto e nulla è al \’suo\’ posto – è chic, ma mai nobile. Gli manca l\’onesta del blu nel pennello e nel dna. direbbe Pasquale Panella. Ma è gisuto aggiungere anche un\’osservazione di Alverto Pezzotta, critico col quela di rado mi trovo in sintonia ma che questa volta ptrebbe gettare una nuova ed inquietante luce sul film: . Ah, ciò fa meditare…

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