Di nuovo incantati da Ryan Gosling, il miglior attore su piazza (nel miglior film su piazza), stavolta biondissimo funambolo motociclista spinto alle rapine da un\’imprevista paternità (con Eva Mendes). La responsabilità che viene dal passato (è stato un ragazzo abbandonato) cozza con quella che ricadrà nel futuro su suo figlio, compagno di college del rampollo del poliziotto Bradley Cooper, vecchia conoscenza di tempi passati che non passano. Adrenalina e sentimento in confezione d\’Autore: Derek Cianfrance, appena ammirato nel ritardatario “Blue Valentine”, sempre con Gosling (2010). Mirabile esempio di film dalla trama da telenovela tenuta in quota da una regia determinata che conosce la tragedia greca e la teletrasporta ad oggi con volo di motocicletta. Le colpe dei padri ricadono sui figli, i meriti dei registi sugli spettatori.
Figlio di un corto pescato con nero occhio benevolo da Guillermo Del Toro, “Mama” (ossessivo titolo originale) è un onesto horror che gioca con la tensione finché può – due bimbe piccole sono state cresciute nel bosco da una protettiva figura mostruosa dopo che il padre ve le aveva portate per ucciderle e suicidarsi –, e non sbraca quando infine è costretto a mostrare la lugubre madre che si insinua nelle pareti ed ha a sua volta una tristissima storia trapassata alle spalle. Le fa il controcanto una quasi irriconoscibile Jessica Chastain col caschetto moro, la chitarra punk e nessuna voglia di avere marmocchie per casa. Mentre gli uomini vanno in frantumi, la tempesta infuria sul picco fatale e i volti si deformano come nei capolavori di Munch, ogni maternità sarà premiata, terribile o conquistata che sia. Più vicino agli horror d\’oriente che a quelli americani (di solito non è un complimento), il film di Muschietti è una sinistra danza delle streghe che rimanda a un temuto inconscio collettivo che sa di cultura dark. Piani sequenza da maestro, finale anche.
In un ospedale di Bombay, alla mezzanotte del 15 agosto 1947, mentre l\’India festeggia l\’indipendenza, due bambini vengono scambiati nella culla. Ma il destino di tutti i nati di quella notte si intreccerà per comporre il futuro di un Paese difficile da unire. Salman Rushdie (al simbolico prezzo di un dollaro) cede al cinema il suo best seller a patto di poterlo sceneggiare egli stesso e lo affida a una regista dalla mano calligrafica. Melodramma patriottico contorto.
Chiamiamolo \’complesso di Luc Besson\’. E\’ il vezzo francese di sfidare il made in Usa sul suo campo forte: i film d\’azione. Oltralpe gonfiano il petto, ma il risultato è sempre deboluccio. Qui, al cospetto del cadavere della moglie del principale sindacalista del Paese, si ricalca la coppia di poliziotti opposti: il bianco raffinato e il nero delle banlieue (il titolo originale è: “Dall\’altra parte della tangenziale”). Ma il primo è un finto Mel Gibson e Omar Sy sciupa le doti di simpatia mostrate in “Quasi amici”.
Tra i monti presso Kabul, una giovane moglie accudisce il marito in coma. Il bisogno di denaro la allontana per qualche tempo e le fa incontrare un altro uomo. Al capezzale del moribondo, la donna svela via via ogni segreto fino a raggiungere una piena – e forse pericolosa – consapevolezza di sé. Quel corpo diviene la pietra del titolo, una leggenda afghana che vuole il minerale sia capace di assorbire ogni segreto dolore fino a frantumarsi. L\’interprete di “About Elly” è di nuovo protagonista di un cine-gioiello mediorientale tratto da un libro scritto dal regista e sceneggiato da un mostro sacro francese quale Jean-Claude Carrière, al quale probabilmente si deve qualche simbolismo piacione in eccesso.
La scrittrice della saga di Twilight affronta il futuro (senza rinunciare al triangolo): gli alieni si impadroniscono della Terra inserendosi nei corpi degli umani e guardando il mondo – senza bisogno alcuno di sfiorarsi – sfrecciando su gelide Lotus Evora. Ma una ragazza (Saoirse Ronan di “Amabili resti”) resiste al \’contagio\’. Perché ama con forza il suo ragazzo (oltre a quello marziano) e quel sole che – ostinato – fa crescere il grano in un angolo di pianeta al riparo dell\’invasione. Andrew Miccol, gran regista di “Gattaca” (e ideatore del Truman Show) si fa carico di una trama scontata con attori bellocci e tenta di farne fantascienza nobile, aiutato dalla supersexykattiva Diane Kruger. A tratti ci riesce, evidentemente troppo. I fan di vampiri e licantropi si sono liquefatti sia da noi che negli States. Gente coerente: la puttanata la vuole totale, o se ne sta a casa.
Trama tutt\’altro che nuova: uno scrittore va a vivere in campagna con moglie e figli per ritrovare l\’ispirazione. Ma la villetta è infestata da un demone che si palesa proprio attraverso i bambini, tutti i precedenti affittuari hanno fatto una pessima fine e il libro rischia davvero di essere il suo ultimo. C\’è di che tremare. Eppure Ethan Hawke sembra pensare ad altro mentre resuscita dangerous Super 8 e lo sciagurato regista de “L\’esorcismo di Emily Rose” si limita a usare luci sinistre e sonorità terroriste in replica.
Noomi Rapace ha dunque deciso: via cicatrici, tatuaggi e capelli sforbiciati corti in favore di un look elegante da signora che frequenta trame e salotti buoni, ma il ruolo resta quello della famigerata trilogia aringa/thriller (stesso regista danese di “Uomini che odiamo le donne”): la dea della vendetta. Ovvero si cristallizza in una parte che la rende espressivamente sterile a dispetto del grande agitarsi: una tigre scontata, tra segreti ed esplosioni, in un film in cui il tocco europeo è fitto di stereotipi al limite del comico/didascalico (la Huppert che liba calici di vino su sfondo di Torre Eiffel). Qui la sua rabbia incrocia (e ricatta) quella di Colin Farrell, attore eclettico che invece sta volentieri – ma non per forza – al centro del mirino. Lei regna sul film, lui lo salva.